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Bologna, città di gente per natura socievole e ospitale, e stata anticamente caratterizzata oltre che dallo Studio, anche dalle sue Accademie talmudiche, dai suoi importanti Maestri della Tora e dalle sue stamperie di libri religiosi ebraici.

La Comunità Ebraica era molto importante: lo testimoniano, fra l’altro, le lapidi sepolcrali prese dall’antico cimitero di via Orfeo e conservate al Museo civico medievale, scolpite con gli splendidi caratteri gemmati rinascimentali, la prima edizione al mondo dei Salmi stampati in incunaboli a Bologna, i libri di preghiera rituali, e le “cinquecentine” conservate ancora presso la Biblioteca universitaria.

La prima presenza ebraica a Bologna e testimoniata con vivacità (da un’Epistola di Ambrogio, vescovo di Milano. Il presule era venuto a Bologna, sul finire del IV secolo, per trasportare nella Basilica di S. Stefano, esumandoli dal Cimitero ebraico, il cosiddetto Campus Judeorum, i due protomartiri cristiani Vitale e Agricola.
Dei diversi secoli che seguono non abbiamo testimonianze scritte. Restano solo alcune leggende riguardo a un ipotetico Jaqob Calderisi da Castel Tedaldo, che avrebbe anticamente risieduto in una casa fra le attuali via Caldarese e via Castel Tialto.

Nella seconda metà del Trecento e segnalata nella citta una notevole immigrazione ebraica che porta sul finire del secolo a una presenza ebraica compatta in città.
In quel periodo, detto del Secondo Comune Bolognese, Bologna conobbe uno sviluppo imponente: fu incentivata l’immigrazione, particolarmente di lavoratori specializzati, fra i quali anche gli Ebrei, e furono costruiti i più importanti monumenti cittadini, in stile gotico bolognese (Loggia dei Mercanti, S. Petronio, S. Francesco, S. Giovanni in Monte ecc.).
Per due secoli gli Ebrei vissero in pace in città. Si stabilirono prevalentemente nella zona interstiziale, posta fra l’antico insediamento romano, che va dalle Due Torri fino a Piazza Malpighi, e l’antico accampamento longobardo che sempre dalle Due Torri si apre a semicerchio verso S. Giovanni in Monte, S. Stefano, S. Vitale e Agricola e S. Donato.

Tale zona interstiziale, incentrata su piazza di Porta Ravegnana, era rimasta per lungo tempo una specie di terra di nessuno, fra Longobardi e Romani, dove si accumulavano le immondizie e dove, per questa ragione principale, le strade avevano nomi indicativi, in senso ironico, come “via dell’Inferno”, “via Bell’andare” ecc.
La zona fu bonificata e la via divenne la via de’ Giudei. Il primo immigrato, tale Gaio Finzi, Judeus de Roma, esercito la professione dello “Strazzarolo”, cioè, rivenditore d’abiti usati, e come lui fecero tanti altri Ebrei, cosi che questa fu considerata la loro professione prevalente, al punto da essere inseriti all’interno di una Corporazione come se fossero una particolare categoria d’artigiani: i Giudei, appunto. Il nome completo fu “Corporazione dei Drappieri-Strazzaroli-Pegolotti-Vaganti e Giudei” e aveva sede nel vicino palazzo degli Strazzaroli (Case Malaguti), tutt’ora esistente.

Gli Ebrei, però, non si limitavano all’attività del commercio di abiti che contraddistingueva la loro Corporazione, ma esercitavano molte altre attività, contribuendo così allo sviluppo economico e culturale del centro urbano (ove eressero tre sinagoghe e costruirono un cimitero) e a quello dei comuni del circondario (ove le sinagoghe raggiunsero il numero di otto). Giuseppe Guidicini, nella sua monumentale opera Cose notabili nella città di Bologna, indica l’ubicazione delle sinagoghe urbane: due si trovavano in via S. Vitale e una in via S. Stefano. Di quelle ubicate in via S. Vitale e stata individuata, all’attuale civico n. 18, quella che anticamente era chiamata “La Grande”.

Quella che era ubicata in via S. Stefano, in prossimità del Banco Sforno, era probabilmente localizzata all’interno di Palazzo Pepoli, che si affacciava anche su via Castiglione.

Per quanto riguarda il circondario, Antonio Ivan Pini ha individuato una sinagoga per ognuno degli insediamenti ebraici di S. Giovanni in Persiceto, Budrio, Cento e Pieve di Cento, Monte Oliveto, Castel San Pietro, Castelfranco Emilia e Crevalcore.

Di tutte queste sinagoghe nel 1569 ne restava una sola: quella del Ghetto.
Intensi furono i rapporti della Comunità Ebraica anche con lo Studio bolognese.

Studenti ebrei si laurearono in Medicina a Bologna e professori ebrei insegnarono all’Università; testi di scienziati ebrei (Maimonide in particolare) furono adottati dallo Studio e studiosi ebrei tradussero i testi di medicina dall’arabo in ebraico e latino e dal latino in ebraico e arabo.

Jacov Mantino fu chiamato a insegnare medicina per richiesta dello stesso pontefice Clemente VII e un altro docente, rimasto anonimo perché probabilmente ebreo, fu chiamato a insegnare Lettere ebraiche. Famosi rabbini, come Obadia Sforno, Azaria De Rossi, Samuele Archivolti, si stabilirono a Bologna e contribuirono allo sviluppo della cultura ebraica locale.

Questo periodo d’oro si concluse con l’età della Controriforma, quando il primo grande inquisitore divenne papa, nel 1555. Gli Ebrei furono rinchiusi nel Serraglio o Chiuso degli Ebrei, solo più tardi chiamato “Ghetto”. Allora fu concesso loro di avere una sola sinagoga, che fu ubicata in via dell’Inferno, all’attuale civico n. 16.

La chiusura fu attivata rigidamente nel 1567, e nel 1569 gli Ebrei furono espulsi.
Quando furono riammessi da Sisto V, nel 1586, non tornarono più nel Ghetto e nel 1597 Clemente VIII li caccio via definitivamente con le disposizioni: “De Iudeis ex universo Statu Ecclesiastico expellendis, Roma, Avinione, & Ancona exceptis”, “litterae affixae & publicatae” alle porte della Basilica di S. Pietro e S. Giovanni in Laterano in Roma il 13 marzo 1593.

Gli “Israeliti” tornarono due secoli dopo, con le idee e con le armate della Rivoluzione francese. Rimasero in città anche dopo la sconfitta di Napoleone, quando la città ritornò sotto il dominio dello Stato Pontificio. Nel 1858 una donna di servizio asserì di aver battezzato segretamente il piccolo ebreo Edgardo Mortara di sei anni. Tanto basto perché l’Inquisitore del Sant’Uffizio inviasse i birri alla casa dell’infelice famiglia per strapparle il figlio onde allevarlo nella religione cattolica,

Il caso Mortara commosse la pubblica opinione e danneggio molto al potere temporale pontificio. Con l’unità d’Italia gli “Israeliti” ebbero tutti i diritti civili, immigrarono a Bologna da altre parti d’Italia e anche da fuori. Dal 1830 al 1930 la popolazione bolognese aumento da circa 100.000 a circa 400.000 abitanti e gli Ebrei in città passarono da circa 100 a circa 900.

Poterono finalmente costruirsi una sinagoga o, come si usava chiamarlo allora, un Tempio israelitico, che fu realizzato e ultimato nel 1877 su progetto dell’ingegner Guido Lisi, in uno stabile che la Comunità aveva comperato all’incanto.

La Comunità continuo poi a crescere di numero e d’importanza. L’Aula di preghiera divenne ben presto insufficiente. All’architetto Attilio Muggia, cui la città di Bologna deve importanti contributi fra i quali l’ultimo tratto cli via Indipendenza, la scalinata del Pincio della Montagnola, il Banco di Napoli, e tante altre opere, fu conferito l’incarico di realizzare un Tempio israelitico. Ed era proprio degno della città di Bologna quello che, progettato in stile liberty, coperto con una volta a padiglione, fu inaugurato nel 1928.

Disgraziatamente fu distrutto appena quindici anni dopo dai bombardamenti aerei. Poiché a quei tempi i fatti riguardanti i “Giudei” non dovevano avere rilevanza cli cronaca, non si può essere certi che la più probabile data del 25 settembre 1943 sia quella della effettiva distruzione del Tempio di Bologna.

Questo Tempio fu ricostruito e inaugurato nel 1953.

Nel 1988 poco sapevano gli Ebrei bolognesi della storia dell’antico Ghetto e ancora meno gli abitanti di quel quartiere, quando nel cinquantesimo anniversario delle leggi razziali si decise di rivisitare la zona, cli restituirle la memoria e la dignità storica, cli riscoprire anche le radici ebraiche della cultura cittadina.

Fonte: "la sinagoga di Bologna, vicende e prospettive di un luogo e di una presenza ebraica" a cura di Lucio Pardo