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La Comunità Ebraica di Bologna dopo la Liberazione
di Lucio Pardo


La Vigilia

L’anno 1945, il 20 d’Aprile non erano in molti fra i componenti della Comunità Israelitica di Bologna ad essere restati in città. fra questi, vi era il prof. Ubaldo Lopes Pegna, che aveva una piccola bottega di cartolaio di fronte all’ingresso principale dell’Università in Via Zamboni, 33 Subito dopo la Liberazione scrisse di getto un corposo dattiloscritto di memorie di quasi settecento pagine (di 47 righe) intitolato
“ Io esistevo per il fascismo” da cui riportiamo qualche frammento.

La Liberazione
“ Nina (il nome di mia moglie quando nei momenti importanti e solenni la chiamo per nome)?”
“Cosa vuoi?”
“ nella mia razza ci sono profeti: domattina ci sono gli inglesi!”
tale il dialogo, il breve dialogo che si svolse la sera del 20 Aprile del 1945 fra me, che stavo giù in bottega attorno ai francobolli, in attesa dell’allarme serale, e mia moglie, che come il solito era già salita sul palco morto coi figliuoli con l’intenzione di dormire, ma con la quasi assoluta certezza di essere svegliata dall’allarme, che l’avrebbe costretta a risemivestirsi, per scendere e andare con me e col resto della famiglia nel rifugio…Come mai a me, per solito taciturno, specialmente nelle circostanze in cui ci trovavamo, venne l’impulso di pronunciare quelle parole? Non so: so che, dopo, capii il significato del verso dantesco “ quasi la lingua da se stessa mossa…” … Ho interrogato diverse persone; ebbene, nessuna mi ha risposto che la mattina dopo si sarebbe aspettata gli inglesi, presto, fra qualche giorno, sì, ma la mattina dopo nessuno…
Quella notte, contrariamente al mio solito, che mi sveglio almeno una volta nel cuore di essa, dormii tutto un sonno; e perciò non sentii nemmeno quel terribile e ininterrotto cannoneggiamento, che, invece, questo, sì, quasi tutti i bolognesi sentirono.
La Giornata
Era destino che con il 20 finisse proprio del tutto la mia schiavitù. Infatti, quando mi svegliai, e mi alzai, sentii, prima, degli spari, poi, delle grida, un vociare confuso, poi più distinto, finché, finalmente, potei distinguere le belle parole: “ Ci sono gli Inglesi! Vengono da Porta Mazzini! Queste parole, non proprio queste, ma il loro significato, avevo atteso per ventitre anni, ventitreenni, e i migliori, quelli della gioventù e della più verde maturità che mi erano stati vòlti in morte e in lutto dalla più fosca, dalla più bieca delle tirannidi, con l’unico, ma triplice conforto della speranza, della certezza e, poi, dell’attesa!… nel primo momento rimasi muto
Subentrò la gioia.
Io e i miei non credevamo alle nostre orecchie
Possibile?
…nel vedere tanta gente che correva, nel vedere tanta animazione tanta gioia nei movimenti di tutti, ci sembrò che anche l’aria che respiravamo fosse diversa…
e andammo giubilanti in Piazza, e vedemmo quel che tutti videro, ma ognuno con i suoi occhi, ognuno con l’animo suo, con la sua esperienza di ventitre anni perché chi non sa che ognuno vede le cose con la sua anima, ognuno diversamente dall’altro? Ognuno aveva la sua gioia, la sua incontenibile gioia; ma, per quanto diverse, tutte queste non piccole, ma grandi gioie si univano e sfociavano insieme in un’unica, immensa, irrefrenabile e sfrenata…
ci trovammo alle Due Torri, senza sapere come avevamo fatto ad arrivarci. Eppure, c’era tanta gente, ma non ancora una folla (data l’ora mattutina) che ci aveva trascinati”.
Lungo la via di Casaglia, presso la famiglia Govoni, erano nascosti gli Albahari.: Leone e Mirta Altaraz, i genitori, Roberto, Rachela ed Alberto i figliuoli.
Avevano i documenti falsi, ma erano sempre in pericolo.
Difficilmente potevano passare inosservati, Roberto per la sua statura, circa due metri, Rachela per la sua bellezza. Quel giorno anche Roberto sentì prima un brusio indistinto che divenne poi un rumore sempre crescente. Seguendo il fiume di folla che si andava ingrossando arrivò in Piazza maggiore, piena di gente in festa. Dall’alto di un veicolo militare un ufficiale dei servizi dell’informazione inglese con la cinepresa stava lentamente riprendendo la folla.
Avvicinatosi al primo ufficiale alleato che gli era dato di conoscere in vita sua, Roberto riuscì a dirgli tutto emozionato: “ You are the first allied officer I’ve seen…!” Senza neanche voltarsi e continuando a manovrare la cinepresa, questi gli rispose con flemma britannica “ O Really?”
Ben altro entusiasmo dimostrarono gli ufficiali sudafricani ebrei, entrati anche loro a Bologna con l’VIII Armata Britannica. Cercarono subito di raggruppare gli ebrei che erano rimasti o stavano tornando a Bologna, per riaprire ufficialmente la sede della Comunità Ebraica.
Giancarlo Sacerdoti riuscì a tornare a Bologna dalla zona di Castiglione dei Pepoli il 22 stesso.
Bianca Finzi con la famiglia il giorno successivo.
Si ricorda come dei militari sudafricani ebrei avessero riunito tutti i correligionari che aveva potuto trovare a Bologna per riaprire ufficialmente la sede comunitaria in Via Gombruti.
Non erano molti gli ebrei che erano tornati a Bologna. Il Rabbino era stato deportato. Non esisteva più un Consiglio della Comunità. Chi poteva rappresentarla?
Si ricorda che a quella cerimonia era presente Nino Samaya, noto antifascista, che sarebbe divenuto vicesindaco qualche tempo dopo.
Bianca Finzi gli si avvicinò e disse “ Dottore tocca a Lei fungere da nostro rappresentante”.
“Ma di ebraismo non so niente” Le rispose.
“Ma, Lei qui è la persona più rappresentativa, e la Comunità deve essere nuovamente visibile.”
Tuttavia la Sinagoga era distrutta e non c’erano locali di riunione
Vennero i camion Brigata Ebraica (chiamata allora Palestinese) e portarono tutti gli ebrei di Bologna ad una gigantesca festa all’aperto nella zona delle Caserme Rosse.
I militari della Brigata Ebraica erano giovani entusiasti che sentivano come una missione quella di ridare vita al tormentato ebraismo europeo.
Continuarono a frequentare la Comunità, a dare lezioni di ebraico ai bambini, a riunire gli adulti per tutto il periodo in cui le truppe alleate rimasero nel nostro Paese.
Ancora oggi ci si ricorda di loro, dei loro nomi, di quanto hanno lasciato, dell’orgoglio per la propria identità che hanno saputo trasmettere a tutti.