Questo sito usa i cookie di terze parti per migliorare i servizi e analizzare il traffico. Le info sulla tua navigazione sono condivise con queste terze parti. Navigando nel sito accetti l'uso dei cookie.

Di Marco Del Monte

La nostra Parashà si apre con un linguaggio molto particolare: “Vehaya Ki tavò el haaretz”-“E avverrà quando entrerai nella Terra”. Spiegano i Chachamim che la parola “Vehayà” viene usata come “Lashon Simchà”, “Espressione di Gioia”.


Di Rav Alberto Sermoneta

"Barukh attà ba ir u barukh attà ba saddè barukh attà be voekha u barukh attà be zetekha - Benedetto sii tu nella città, benedetto sii tu nella campagna, benedetto sii tu nel tuo entrare e benedetto sii tu nel tuo uscire"
Così si concludono le berakhot, che il Signore invia al popolo quando esso si comporta secondo ciò che viene comandato dalla Torà.
Le berakhot precedono le kelalot-le maledizioni che vengono mandate nel caso in cui il popolo non segua le regole della Torà.


Di Rav Alberto Sermoneta

“Barukh attà ba ir u barukh attà ba saddè, barukh attà be voekha u barukh attà be zetekha - Benedetto sarai tu nella città, e benedetto sarai tu in campagna, benedetto sarai tu quando entri e benedetto sarai tu quando esci".
Con queste parole si concludono le berakhot - benedizioni che, insieme alle kelalot - maledizioni, costituiscono la parte fondamentale della parashà che leggeremo questo shabbat.
C'è da notare che sia le une che le altre sono rivolte al popolo nella sua collettività, non al singolo ebreo.


Di Rav Alberto Sermoneta

La parashà che leggeremo questa settimana, inizia con una mizvà chiamata dai maestri del Talmud “Viddui biccurim – la confessione delle primizie”.
Ogni ebreo, giunto in Terra di Israele, aveva il dovere di offrire un sacrificio, come ringraziamento per il prodotto abbondante, nel momento della raccolta delle primizie.
Prima di offrire questo sacrificio, che veniva preso dalle mani del sacerdote, l’offerente, doveva recitare una formula che viene definita viddui – confessione.
In effetti non si tratta di una vera confessione, ma della storia del nostro popolo, dalla sua nascita:
“…Mio padre era un arameo nomade (è riferito a Giacobbe, che prima di diventare Israel, fu al servizio per venti anni di suo zio-suocero Labano, chiamato anche arameo) e scese in Egitto e abito lì con un piccolo gruppo, di lì divenne un grande popolo……..”


Di Rav Alberto Sermoneta

La parashà che leggeremo questa settimana contiene una serie di ammonimenti talmente duri, che i nostri Maestri li hanno chiamati con il termine “kelalot – maledizioni”.
Essa inizia con le parole “ve hajà ki tavò el ha aretz – e avverrà, quando giungerai sulla terra….”.
Rash”ì, in questa ed in altre occasioni in cui il testo inizia con la parola “ve hajà”, sostiene che il suo seguito è sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola “ve hajà” è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola “va jehì - e fu”, la fine o perlomeno il contesto del racconto, non è tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché sono contenute in essa le kelalot – le maledizioni?


Di Rav Alberto Sermoneta

La parashà di Ki tavò è particolarmente nota per due passi in essa contenuti che vanno sotto il nome di “berakhot e kelalot” (benedizioni e maledizioni), tant’è che nel momento in cui si leggono, è uso chiudere le porte del tempio: coloro che sono dentro non possono uscire, mentre coloro che si trovano fuori non possono entrare.A proposito delle “berakhot e delle kelalot” ci si domanda il motivo per cui il popolo viene diviso in due gruppi, e si  dispongono rispettivamente sotto il monte Gherizim, coloro che saranno testimoni delle berakhot; sotto il monte Eval, coloro che dovranno testimoniare sulle kelalot.