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Di Rav Alberto Sermoneta
La parashà che leggeremo questo shabbat inizia con una precisa indicazione riguardo il luogo ed il momento in cui è stata data: “behar Sinai – sul Monte Sinai” ossia nello stesso contesto in cui è stata data la Torà.
Infatti, ci sono delle parashot particolari nella Torà che, data la loro importanza, sono alla stregua degli
aseret ha dibberot – I Dieci Comandamenti.
In essa si tratta dell'istituzione di regole riguardanti la terra di Israele, l'agricoltura e tutto ciò che concerne il rispetto della vita dei campi in funzione dei campi stessi.
Vengono istituiti l'anno sabbatico e l'anno giubileo: il primo riguarda la lavorazione del campo durante sei anni ed il lasciare che
il terreno si riposi nel settimo anno.

Facendo così, anche il prodotto della terra in quel settimo anno, chiamato appunto “anno sabbatico”, non doveva essere raccolto e quindi non poteva essere mangiato.
Era una forma di rispetto anche per la natura, la quale dopo sei anni di duro lavoro, bisognava che si lasciasse riposare, per poter essere, l'anno successivo nuovamente pronta ad essere lavorata.
Dopo sette anni sabbatici, cadeva lo jovel – l'anno giubileo, anno in cui tutto ritornava al possessore originario. L'anno giubileo veniva annunciato, all'uscita di kippur dello stesso anno con il suono dello shofar, che veniva suonato per tutta la Terra di Israele.
Il termine jovel infatti, significa montone, poichè il corno di montone – lo shofar – era lo strumento che annunciava il suo inizio.
Data la difficoltà di mantenere queste regole così complesse, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme esse furono sospese; uno dei motivi per cui fu istituito l'uso di suonare lo shofar all'uscita di kippur, è proprio perchè, data la non conoscenza della data esatta dello jovel, ogni anno potrebbe essere quello giusto. Teniamo presente però che, sia l'anno sabbatico che quello giubileo, riguardano esclusivamente la terra di Israele.
Questo shabbat leggeremo il terzo capitolo dei pirkè avot. Il settimo paragrafo di esso, (la settima mishnà) insegna: “Rabby Elazar, abitante di Bartotà dice: dai a Lui qualcosa di Suo, poichè sia te che ciò che è tuo appartengono a Lui. Così David dice: (Cronache 1;29) “poichè è Tuo il tutto è del Tuo che noi diamo a Te.”
Il maestro vuole insegnarci che ciò che noi elargiamo dicendo di darlo come opera di beneficenza, in verità appartiene al Signore che ci ha voluti premiare facendoci arricchire. Per questo motivo noi abbiamo il dovere di fare offerte da ciò che apparentemente è nostro, ma in realtà appartiene a D-o.
Il termine usato per intendere l'azione di fare le offerte è “ve natenù – e daranno”; questa parola, scritta in ebraico si può leggere sia da un verso (da destra verso sinistra) che dall'altro (da sinistra verso destra).
Essa esprime proprio l'azione contemplata nel paragrafo in questione: l'azione di dare, che noi facciamo al nostro prossimo (considerata una azione sacra), in realtà ci viene dal Signore, così come ciò che tiriamo fuori dalle nostre tasche, ci viene fatto riavere proprio dal Signore, il quale premia il nostro operato.
La zedakà quindi, non è considerata un esborso ma soltanto una azione che il Signore premierà facendola rientrare nelle nostre tasche.

Shabbat shalom