Di Rav Alberto Sermoneta

“Mi she ni khnas Adar marbim be simchà, mi shenikhnas Av mema’attim be simchà”
(“...da quando inizia il mese di Adar aumenta la gioia, da quando inizia il mese di Av diminuisce la gioia”)  

Questa frase è stata pronunciata dai Maestri della Mishnà i quali ci insegnano quale deve essere il comportamento da tenersi durante alcuni mesi particolari del calendario ebraico cioè: Adar, mese in cui cade la festa di Purim e Av, mese in cui si commemora, al 9 di esso la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme, e la cacciata degli ebrei dalla Spagna. 
Tra qualche giorno inizierà il mese di Av, anzi precisamente il mese di Av Menachem, chiamato così fino al sabato successivo al 9 di esso per poi cambiare il nome in Menachem Av. 
La parola Menachem significa “consolazione”, in quanto immediatamente dopo il digiuno di Tishà be av, subentra per il popolo di Israele la consolazione divina, che promette loro, attraverso i Profeti, la ricostruzione del Tempio ed il ritorno nella città di Gerusalemme ricostruita.
Il sabato che precede Tishà be Av, prende il nome dalla Haftarà (brano profetico settimanale che inizia con le parole “chazon Jeshajahu” “visione di Isaia” Isaia cap.1 v.1) che viene letta in esso ed è chiamato Shabbat chazon .
Il parochet (cortina che si trova davanti all’aron ha kodesh) viene sostituito da un altro che viene appositamente lasciato per tutto lo shabbat fino al pomeriggio del giorno del digiuno, ed è particolarmente luttuoso.
Anche se questo shabbat è il primo sabato del mese, alla sua uscita non si recita la Birkat ha levanà la particolare benedizione sulla luna che si recita comunemente all’uscita del primo shabbat del mese.
Durante i primi nove giorni di questo mese, (secondo alcuni già dal 17 del mese di Tamuz, digiuno in cui si commemorano cinque disgrazie avvenute al popolo durante il corso della sua vita: sono state rotte le prime Tavole della Legge, sono cessati i sacrifici quotidiani, è stata aperta una breccia nelle mura di Gerusalemme, è iniziato l’assedio ad opera dei babilonesi, è stata bruciata pubblicamente la Torà ed è stato definitivamente spento il fuoco sull’Altare dei sacrifici) inizia un periodo particolarmente restrittivo, in cui è proibito partecipare a feste di qualsiasi genere, matrimoni, maggiorità religiose, feste mondane, indossare capi nuovi, tagliare i capelli, radersi la barba, mangiare carne (escluso lo shabbat) e persino, secondo alcuni, fare il bagno al mare o in qualsiasi luogo balneare, in quanto le acque in questo periodo sono particolarmente pericolose. I Maestri della Mishnà ammoniscono che chiunque lavori di Tishà be Av, non gode del guadagno del suo sforzo.
La storia dell’origine di questa giornata così luttuosa, risale all’epoca della Torà e precisamente al momento in cui i dodici esploratori, dopo essere stati per quaranta giorni e quaranta notti ad esplorare la Terra di Israel, affermarono che essa era abitata da giganti e sarebbe stato impossibile la sua conquista a causa della loro potenza sia fisica che militare.
La Torà continua il racconto dicendo che “ e tutta la congrega si alzò gridando ad alta voce e in quella notte il popolo pianse”(Numeri 14 v.1)
Il midrash racconta che, in seguito alla punizione divina che fu decretata, cioè che ad ogni giorno di permanenza nella terra di Israele avrebbe corrisposto un anno di permanenza nel deserto e quindi quaranta anni di ulteriore permanenza nel deserto, fu decretato anche che, dato che il popolo aveva pianto senza alcun motivo (soltanto per mancanza di fiducia nel Signore), da quel momento piangeranno in quella notte -9 di av – di ogni anno per qualcosa di reale: cioè per la distruzione dei due Templi di Gerusalemme e per le due Diaspore.
Durante la giornata di Tishà be Av, che inizia con il tramonto della vigilia
(quest’anno lunedì sera 19 Luglio alle ore 20,48) fino all’uscita delle stelle della sera dopo (martedì 20 Luglio ore 21,45) è assolutamente proibito, oltre che mangiare e bere, anche lavarsi, ungersi (profumarsi), indossare scarpe di cuoio, avere rapporti sessuali e persino salutarsi.
La tefillà di arvit di lunedì sera, viene recitata in modo particolarmente lugubre, stando in un angolo della Sinagoga, con le luci spente, spegnendo persino il ner tamid, quel lume che è posto davanti l’aron ha kodesh; leggendo la Meghillà di Echà (libro delle Lamentazioni) si sta seduti in terra seguendone la lettura con una candela, la quale, secondo un antichissimo minhag romano, dovrà servire poi per accendere i lumi della lampada di Chanuccà, come forma di augurio per ciò che è scritto “ u meafelà le orà” “dalle tenebre alla luce gioiosa”.
La tefillà di Shachrit dell’indomani mattina, verrà recitata sempre nello stesso modo di ‘arvit, senza che però gli uomini indossino né il Taled né i Tefillin; si omettono alcuni brani della tefillà, come ad esempio la Shirat ha jam (la cantica del mare), la Torà viene estratta in un modo assai toccante e luttuoso, vestita con un mantello scurissimo e lacero, senza alcun ornamento in argento, la lettura è assai veloce e priva di motivi musicali, mentre coloro che salgono alla lettura, sostituiscono la formula di saluto “ A’ Immachem” con quella di “Barukh dajan ha emet” formula che viene solitamente recitata dagli avelim (persone in lutto) al momento del seppellimento di un loro caro.
Vi era un uso antichissimo che vigeva nella Comunità di Reggio Emilia, riguardo la lettura del Sefer Torà nella giornata odierna, che avveniva, non su di un tavolino come si fa ormai in quasi tutte le comunità del mondo, ma sulla schiena dello shammash che si piegava appositamente per questo motivo e due persone, una da una parte, una dall’altra ne tenevano le estremità.
Anche il rientro della Torà è accompagnato dal salmo137 “’al naharot Bavel” “sui fiumi di Babilonia” salmo in cui viene menzionata la deportazione in Babilonia.
Durante la lettura della meghillà di Echà, si usa star seduti in terra, come alla sera precedente, senza però usare alcun tipo di lume.
Passato mezzogiorno, la Sinagoga riprende le sue caratteristiche abituali:
si riaccendono le luci, viene rimesso il parchet consueto, e la tefillà di Minchà viene recitata nella parte comune della Sinagoga e gli uomini tornano ad indossare sia il Taled che i Tefillin; il Sefer Torà viene estratto e letto come avviene comunemente e addirittura il suo rientro nell’aron viene effettuato come nei giorni festivi.
All’uscita del digiuno, prima ancora di mangiare si recita la Birkat ha levanà e se tishà be Av cade di sabato sera, non si fa la havdalà (le benedizioni dell’uscita dello shabbat), ma all’infuori della benedizione sul fuoco, le altre si recitano la sera dopo all’uscita del digiuno.
Il pasto con cui si interrompe il digiuno deve essere un pasto in assenza di carne e di vino, allo stesso modo di quello con cui il digiuno si prende.
Lo shabbat che segue è chiamato shabbat nachamù – sabato della consolazione in quanto prende il nome dalla haftarà che si legge in esso che inizia con le parole “nachamù nachamù ‘ammi” “consolate consolate il mio popolo” Isaia cap.40.
Da quel momento in avanti il mese di menachem av, si trasforma in un periodo festivo soprattutto nel giorno del 15 del mese Tu be Av, considerato dai Maestri della Mishnà, uno dei giorni più festivi e più belli per il popolo di Israele.
“non esisteva altra festa più bella che quella del 15 av e chi non l’aveva vissuta non sapeva cosa era una festa gioiosa” (Mishnà di Ta’anit)
“Possano tutti coloro che fanno lutto per Gerusalemme distrutta, gioire nel vedere la sua ricostruzione e possano finalmente cessare le nostre disgrazie e le sofferenze del nostro popolo.