Di Rav Alberto Sermoneta
Con la parashà che leggeremo questo shabbat si inizia il quarto libro della Torà, che prende il nome proprio da una delle prime parole con cui la parashà inizia: Bemidbar, termine che in italiano significa “nel deserto” poiché in tutto il libro vengono narrati gli episodi più salienti avvenuti in mezzo al popolo, durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, prima dell’ingresso nella Terra di Israele.
La maggior parte degli episodi narrati nel libro, chiamato invece dai Settanta “Numeri” perché inizia con un censimento degli uomini del popolo, contiene episodi che raccontano momenti poco piacevoli e comportamenti del popolo o, di parte di esso, che contrastano fortemente con la denominazione di “Popolo Kadosh e speciale possedimento divino”.
Nonostante ciò, il libro inizia nella maggior parte degli anni, nella settimana o il sabato che precede la festa di Shavuot; i commentatori si chiedono il motivo di questa coincidenza e che relazione c’è fra la parashà di Bemidbar e la festa di Shavuot.
Intanto si può notare che la zona desirtica che viene citata all’inizio della parashà è proprio quella del “Midbar Sinai – il Deserto del Sinai” (anche se gli esperti di Geografia sostengono che, il deserto attraversato dagli ebrei, può definirsi tutto Sinai, le località desertiche però, sono citate dalla Torà con nomi diversi) la stessa località dove sorgeva il Monte Chorev, da dove il Signore Iddio pronunciò i Dieci Comandamenti e donò le Tavole della Legge a Mosè e al popolo ebraico.
Poi analizzando la radice del termine deserto – MIDBAR – rileviamo un trilittero DBR o DVR che si legge DAVAR – parola, singolare di DEVARIM o DIBBEROT - parole, che richiamano gli “ASERET HA DIBBEROT o ASERET HA DEVARIM – LE DIECI PAROLE - I DIECI COMANDAMENTI”.
Solitamente siamo soliti considerare il deserto la terra di nessuno, la terra del silenzio, immaginandosi quel luogo completamente privo di rumori, se non quelli della natura.
Invece è proprio nei luoghi più isolati che si può ascoltare la parola di D-o; non che l’ebraismo accetti la condizione di ascetismo, ma è il luogo in cui si percepisce meglio il verbo divino, con la possibilità che venga ascoltato da tutti coloro che voglio accettarlo.
Il deserto ed il viaggio dei quarant’anni in mezzo ad esso, sono considerati la preparazione necessaria per i Figli di Israele a divenire un popolo degno di essere possessori della Torà e di ereditare la Terra di Israele.
Esso è quindi la fornace dove un metallo grezzo diviene prezioso, tanto da essere definito un “tesoro divino”; se ciò è stato il deserto, la Torà è considerata la fornace spirituale di esso.
La festa di Shavuot è quindi legata fortemente al libro di Bemidbar, anche perché lo scopo della Torà è quello di far ritornare coloro che si comportano in modo errato nei confronti di D-o e nei confronti del prossimo, alla strada giusta e retta.
Leggeremo inoltre il sesto ed ultimo capitolo dei Pirkè avot, considerato aggiuntivo e chiamato anche “avot de Rabbì Meir, in quanto tutti i paragrafi che si trovano in esso, appartengono al Maestro citato.
Questo è considerato una baraiità, cioè una parte che si trova fuori del testo originale e che in tempi successivi, è stato poi introdotto nel resto del testo.
In tutti i suoi paragrafi si parla dell’importanza della Torà e dell’onore che riceve colui che dedica la propria vita al suo studio.
E’ quindi anch’esso in relazione alla festa di Shavuot, e al mattan Torà, che pone il popolo nella condizione di essere “mamlekhet kohanim ve goi kadosh – reame di sacerdoti e popolo distinto”.
Shabbat shalom e moadim le simchà