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Di Rav Alberto Sermoneta

La parashà che leggeremo questa settimana contiene una serie di ammonimenti talmente duri, che i nostri Maestri li hanno chiamati con il termine “kelalot – maledizioni”.
Essa inizia con le parole “ve hajà ki tavò el ha aretz – e avverrà, quando giungerai sulla terra….”.
Rash”ì, in questa ed in altre occasioni in cui il testo inizia con la parola “ve hajà”, sostiene che il suo seguito è sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola “ve hajà” è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola “va jehì - e fu”, la fine o perlomeno il contesto del racconto, non è tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché sono contenute in essa le kelalot – le maledizioni?

Per comprendere la risposta bisogna fare un salto indietro, fino al libro di Vaikrà – il Levitico,
quando nella sua ultima parashà , quella di Bechuccotai, è contenuto un brano simile a questo ma in forma più leggera, che i Maestri hanno chiamato “tokhachot – ammonimenti”.
Alcuni Commentatori sostengono che il brano del Levitico sia chiamato “tokhachà ketannà” (piccolo ammonimento), mentre quello della nostra parashà, “tokhachà ghedolà” (grande ammonizione).
Il brano che leggeremo questo sabato, ha una forma assai più forte e violenta rispetto a quella letta in passato.
Allora, perché Rashì prende l’iniziativa di sostenere che ogni volta che un testo si apre con la parola “ve hajà” è sintomo di lieto fine? Perché soltanto chi ha la forza e l’onestà di ammonire qualcuno - anche in modo abbastanza duro - riesce a far capire quanto affetto nutre nei suoi confronti; viceversa, chi lusinga con parole dolci, sicuramente determinerà qualcosa di poco chiaro.
Un proverbio ebraico italiano suona con le parole: “chi ti vuol bene ti fa piangere e chi ti vuol male ti fa ridere….”
Il Signore Iddio ama il popolo di Israele e per questo lo mette in guardia per il suo comportamento.

Shabbat shalom