Questo sito usa i cookie di terze parti per migliorare i servizi e analizzare il traffico. Le info sulla tua navigazione sono condivise con queste terze parti. Navigando nel sito accetti l'uso dei cookie.


Di Rav Alberto Sermoneta

La parashà inizia con qualcosa di particolarmente strano, che non si avvera mai in tutto il Pentateuco dal libro dell'Esodo fino alla fine del Deuteronomio e cioè, la mancanza assoluta, in questa parashà, del nome di Mosè.
Essa inizia con le parole: “Veattà tezzavvè el benè Israel” “E tu ordina ai figli di Israel.....ecc.” e va avanti senza mai più menzionare il nome di Mosè.
È qualcosa di particolarmente inconsueto, che tanto dà da discutere ai nostri Maestri dell'esegesi; infatti noi, leggendo tutta la Torà, siamo abituati a vedere sempre scritto “vaidabber A' el Moshè” oppure “va jomer A' el Moshè” e così via dal libro di shemot, in cui viene descritta la sua nascita, a quello di Devarim, alla cui fine viene descritto il momento della sua morte.

Molte sono le motivazioni addotte dai commentatori, a questo caso particolare, ma le più attendibili sono due.
Il Ba'al ha turim fa notare che la parashà di Tezzavvè è la ventesima parashà della Torà:
Mosè si trova sul Monte Sinai a pregare il Signore per quaranta giorni e quaranta notti per far salvare il popolo a causa della colpa di idolatria commessa con la costruzione del vitello d'oro, in un momento di particolare impetuosità dice: «....cancella me dal tuo Libro che hai scritto».
Il Maestro sottolinea due cose: una è che la parola “tuo Libro” che in ebraico suona con SIFREKHA' vorrebbe significare in quel caso SEFER _KH il libro ventesimo, in quanto la lettera Kh (caf) è la ventesima lettera dell'alfabeto, quindi potremmo dire che il senso della parola SIFREKHA' è quello di “libro ventesimo” intendendo il termine libro come parte o sezione o porzione.
A questo aggiunge il Ba'al ha Turim, c'è da dire che le preghiere degli Zaddikim (i giusti) e di Mosè, che era uno zaddik, sono sempre ascoltate dal Signore, anche quando esprimono una condizione che a D-o non piace.
Per questo motivo, la preghiera di Mosè, viene in un certo senso ascoltata e Mosè non compare nella ventesima parashà della Torà – il libro di D-o.
Chiaramente Mosè, non intendeva essere ascoltato in questo senso, ma dava piuttosto la disponibilità a rinunciare alla propria vita come condizione alla salvezza del suo popolo.
C'è ancora un’altra spiegazione al fatto che nella parashà non compare il nome di Mosè ed è quella che tutta la parashà, tratta di un argomento che compete non a Mosè ma a suo fratello Aronne, in quanto viene nominato Sommo Sacerdote, e la parashà si occupa completamente dei vestiari e della attività dei Sacerdoti nel Mishkan e quindi in seguito, del Bet ha Mikdash.
Per questo motivo, proprio per una forma di rispetto per suo fratello, fra l'altro più grande di lui, Mosè si fa da parte per lasciare, almeno in un momento di sua pertinenza, il posto a qualcun altro.
Anche da questo gesto noi riusciamo a comprendere la grande umiltà di questo uomo.
Un antico proverbio ebraico dice che con “tezzavvè Purim se ne viè” e che con “ki tissà Purim se ne va'”; queste sono le due Parashot, l'una conseguente all'altra, che nella grande maggioranza dei casi cadono a cavallo della festa di Purim.
Che cosa ha a che fare la festa di Purim, con la parashà di Tezzavvè o viceversa?
Abbiamo appena detto che nella parashà in questione non viene mai menzionato il nome di Mosè, in un certo senso esso viene tenuto nascosto per far spazio a quello di Aronne suo fratello.
Questo è considerato un po’ il gioco delle parti, in cui vengono attribuiti compiti in funzione dei momenti; tutti conosciamo la storia di Purim, una storia che è molto in tema con lo scambio delle parti, così come sembra che il destino degli ebrei più volte sia vittima dello scambio di parti.
Soprattutto c'è da far caso al nome della protagonista principale della storia di Purim, la regina Ester, che cambia il suo nome ebraico – Adassà – per assumerne uno che, oltre a non essere un nome ebraico, dimostra la volontà di lei di voler, in un certo senso, non entrare in questione con ciò che stava per accadere agli ebrei.
Infatti, il nome Ester, vuol dire Nascosto e Meghillà, il rotolo contenente la storia di Purim che leggeremo se D. vorrà, sabato sera e domenica mattina, vuol dire “svelato”.
Leggendo insieme questi due termini Meghillat Ester, noi leggiamo la soluzione del caso in questione, e soprattutto l'indicazione per poter riuscire a sopravvivere dinnanzi a casi come quelli accaduti in Persia ai tempi di Ester e Mordekhai, cioè svelare il nascosto.
Fintanto che noi ebrei tentiamo di nascondere la nostra identità, non ci provochiamo altro che rischi e pericoli. Per scongiurarli c'è bisogno soltanto di svelare la nostra vera identità.

Shabbat Shalom e chag Purim sameach