Questo sito usa i cookie di terze parti per migliorare i servizi e analizzare il traffico. Le info sulla tua navigazione sono condivise con queste terze parti. Navigando nel sito accetti l'uso dei cookie.

Di Moshè Marco Del Monte

Nella Parashà della settimana vengono riportate le norme relative al comportamento dei Cohanim, in particolar modo si prescrive l’allontanamento da tutte le forme di Impurità del morto, per poi passare alla descrizione delle festività ebraiche.

Dal momento che la Torà accosta gli argomenti non casualmente, ci si potrebbe domandare perché questi due argomenti sono contigui, inoltre, come noi sappiamo, la Torà è un libro eterno che parla a tutti e in ogni generazione, allora perché trattare delle regole relative ed esclusive di una sola famiglia, quella dei Cohanim? Forse che questo insegnamento è solo di carattere conoscitivo ma non riguarda direttamente ognuno di noi? La Torà ci risponde in Esodo 19,6: “ E tu sarai per me un regno di Cohanim e una nazione santa, queste sono le parole che dirai ai figli d'Israele». Stranamente sembra che la Torà chiami Cohen, Sacerdote, ognuno del popolo d’Israel. Come spiegano numerosi chachamim ed in particolare Rav Ovadiyà Sforno, il Cohen, non è solo un nome di una famiglia, piuttosto è un titolo, una missione che riguarda ognuno di noi come facente funzione Sacerdotale nei confronti dell’umanità per poter permettere di riconoscere Hashem, invocare il Suo Nome e servirLo. Ed è per questo che la Torà raccomanda di allontanarsi da ogni forma di morte, sarai portatore di Vita e di Vitalità come è scritto: “Lo hametim Yallelù Y—A” “I Morti sono quelli che non ti lodano”, si tratta quindi di morte spirituale, alla quale si risponde con un altro verso: “Veattem hadevekim BaHashem Chaym kulechem Hayom” “Voi che siete attaccati ad Hashem siete tutti Vivi oggi”. Ognuno di noi deve essere quindi portatore e “contagiatore” di vita, essendo attaccati alla fonte di Vita, Hashem Echad, il D-o Unico. La prima lettera dell’alfabeto ebraico, Alef, ha valore numerico di uno, rappresentando quindi proprio Hashem, inoltre la sua forma grafica è composta da due yod ed una vav che sommati nel loro valore numerico danno 26, cioè il valore del Nome di D-o Tetragrammato. Il Folklore ebraico descrive benissimo questi concetti espressi sopra nella storia del Golem, un essere di argilla al quale il Maharal di Praga scrisse sulla sua fronte la parola Emet, verità, rendendolo un essere vitale. Quando il Golem iniziò a manifestare comportamenti inadeguati si cancellò dalla sua fronte la lettera Alef, lasciando solo le due lettere mem e tav le quali formano la parola Met, morto. Ognuno di noi potrebbe essere rappresentato simbolicamente da questo essere, nel momento in cui nella nostra vita attacchiamo quell’Alef, cioè D-o, diventiamo vivi, e portatori di vita come i Cohanim; nel momento in cui questa alef viene a mancare, l’Essere, fatto dalla terra, ritorna ad essere una materia informe ed esanime. Proprio per questo, verso la fine della Parashà si parla delle sei festività ebraiche paragonate ai sei giorni della Creazione: Pesach, Sukkot (le quali durano 7 giorni ciascuna), Shavuot, Shemini Atzeret, Rosh Hashana (due giorni considerati un unico giorno), Yom Kippur che durano 1 giorno. Anche se nella diaspora la durata di alcune feste prevede un giorno in più, alcuni maestri sostengono che il tempo che permette quella ricarica spirituale che avviene in un giorno vissuto in Eretz Israel, terra che contiene livelli di santità maggiori rispetto al mondo (Talmud), avviene in due giorni fuori da Eretz Israel, e quindi, di fatto, si tratta sempre di un unico giorno spirituale. Il Totale dei giorni delle feste è quindi 18, come la parola ChaY, Vita (Torat Immecha, Rav D. Sciunnach) e quindi strettamente legato con le regole dei Cohanim, cioè di ognuno di noi.

Con l’augurio che ognuno di noi possa essere sempre portatore di vita per sé e per tutto il mondo.
Shabbat Shalom