Di Marco Del Monte
In queste Parashot si racconta della persona colpita dalla Tzara’at, la quale viene esclusa dal campo, posta lontana dagli uomini e, apparentemente, anche da Dio. Chi dichiara questa persona impura non è un medico, bensì il Cohen, una figura prettamente spirituale.
Il Midrash e il Talmud ci spiegano che la Tzara’at non è una malattia qualunque. Rappresenta l’unione tra corpo e anima, tra spirito e materia, poiché tra le cause, forse quella principale, da cui essa scaturisce troviamo la Lashon Harà , la parola negativa, corrosiva, che divide e ferisce. Ed è per questo che il “malato di Tzaraat” viene messo in isolamento: perché ha cercato di mettere divisione negli altri, ha evidenziato le loro “piaghe”, e li ha isolati. Questo è ben risaputo, ma qual è la soluzione a questo? In cosa consiste la difficile Terapia? Il compito ora è quello di riscoprire la parola che unisce. È interessante notare che anche la “diagnosi di Tzaraat” avviene attraverso la parola, la dichiarazione del Cohen: Non si stabilisce la sua condizione di impurità se il Sacerdote non pronuncia la parola “Impuro”. Nelle Parashot si parla, non a caso, di Brit Milà, che non viene letto solo come circoncisione ma come “Patto della Parola”, come a dire, l’argomento inserito in questi contesti non è fortuito. Le questioni relative alla Tzaraat vengono discusse nell’ordine Tahorot, nei trattati di Nega’im (Piaghe, leggi della tzara’at, su persone, vestiti e case) e Ohalot (Tende, leggi dell’impurità derivante dal contatto con i morti, in strutture che “trasmettono” l’impurità), questi, considerati tra i più complessi, difficili e tecnici; come a dire che la causa di queste conseguenze, cioè la Lashon Harà, è una situazione in cui è molto facile cadere, ma altrettanto difficile e complesso uscirne, per purificarsi. Eppure, nel Yalkut Shimoni troviamo un passo straordinario: “Disse (Re) David di fronte Kadosh Baruch Hu: Ribono shel Olam, Signore del mondo, non è forse chiaro davanti a Te che quando Israele recita i Tehillim non lo fa per ricevere premio, né per studiare le leggi di impurità e purezza…ma sia la Tua volontà che Tu li consideri come se studiassero Nega’im e Ohalot.” La richiesta di David HaMelech ad Hashem è sorprendente: anche quando il popolo non riesce ad arrivare allo studio più tecnico, che le loro parole di preghiera valgano come l’occuparsi della parte più pura e difficile della Torah. I Salmi non sono semplici poesie. Sono Torah in forma di supplica, di lode, di pianto, di speranza, non a caso sono divise in cinque libri come i cinque libri della Torà. Quando una persona ce l’ha con il mondo e viene isolata o meglio si isola lui stesso con i suoi pensieri, come è scritto “Ki yhiè vo naga Berosh” “quando la piaga è nella sua testa, cioè nella sua mente, e non sa come uscirne, esiste una soluzione semplice ma intensa, elevata e complessa come i trattati di Mishnà più difficili: Il canto dei Tehillim. Quando la vita sembra metterci di fronte a situazioni difficili in un mondo alieno, estraneo a noi, e noi siamo parte del problema, si può recitare uno dei Tehillim, e Hashem lo ascolterà e considererà ogni parola come se stesse studiando e vivendo le pratiche dei trattati di Purificazione. Il Cohen a quel punto lo riaccoglie, Dio lo ascolta. I Salmi diventano, quindi, la voce che spezza l’isolamento e ricuce l’anima e le anime. Quando non riesci a studiare, recita Tehillim, quando ti senti “impuro”, recita Tehillim, se ti senti lontano da molte situazioni,recita Tehillim, perché ogni versetto è una chiave, ogni parola è un Brit, un patto, tra la tua lingua e Kadosh Baruch Hu; i Tehillim purificano l’aria, e se il problema non è interno ma esterno essi aiutano anche a purificare la casa, cioè il mondo in cui viviamo.
Shabbat Shalom Umevorach