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Di Rav Alberto Sermoneta

Con questa parashà inizia il terzo libro della Torà chiamato “Torat Ha Cohanim” (la legge dei Sacerdoti) o “Torat ha Korbanot” (la legge dei Sacrifici).

In esso vengono contenute tutte le regole riguardanti la vita ed il comportamento dei Cohanim. I Cohanim appartenevano ad una parte della tribù di Levi, i quali discendevano direttamente da Aharon, fratello di Mosè, ed essendo dediti al culto del Tempio, dovevano obbligatoriamente osservare determinate regole comportamentali.

Nel libro sono inoltre descritti anche tutti i sacrifici che ogni ebreo doveva offrire, nel corso della propria vita, siano essi fissi che occasionali, sempre attraverso i  cohanim.
Oltre alle varie interpretazioni della vita sacrificale, descritta nel libro di Vaikrà, molta curiosità desta il fatto che la prima parola con cui esso inizia, sia scritta in un modo poco usuale della Torà e cioè con la “alef” finale più piccola delle altre lettere.
Secondo l’opinione del RAMBA”N (Rabby Moshè bar Nachman), questo dimostrerebbe che la Kabalà - opera della mistica ebraica -  esiste sin dai tempi in cui è stata data la Torà e  che  vuole introdurre il popolo al suo studio in modo delicato, senza sconvolgimenti, attraverso quelle eccezioni che si incontrano in tutto il testo della Torà stessa e che riguardano la linguistica e le varie eccezioni ortografiche: ne rappresenta un esempio quella di scrivere una parola in un modo e di leggerla in un altro oppure quella di  scriverla mancante di qualche lettera, od ancora, come nel caso specifico, quella di scrivere una lettera più piccola rispetto alle altre.
Il motivo sarebbe quello di dare un significato particolare a quel contesto, rispetto al significato razionale.
Secondo Il BA’AL HA TURIM (Rabbenu Ja’akov ben Asher) il motivo della diversità della scrittura avrebbe lo scopo di sottolineare come Mosè, guida indiscutibile del popolo ebraico, manifestava la propria umiltà davanti al popolo e davanti al Signore.
Insegna il Ba’al ha Turim, che proprio attraverso l’umiltà si vede il valore di un leader; infatti questi, nel raccontare episodi che lo riguardano, deve far in modo di non peccare di superbia e per quanto possibile, deve non far prevalere il suo “ego” rispetto agli altri.
Mosè, nel corso dei quarant’anni di vita nel deserto, più volte era stato chiamato direttamente dal Signore, davanti al popolo, ma questo non lo aveva fatto assolutamente considerare superiore a nessuno, tantomeno questo fu per lui motivo di vanto.
Si racconta che nel dover esprimere il concetto di chiamata divina, egli si paragonò al falso profeta Bilam, a proposito del quale è detto “vaikkar el Bilam” “il Signore si rivolse a Bilam” usando lo stesso verbo, in forma però assai riduttiva.
Mosè fece la stessa cosa anche per se stesso,usando lo stesso verbo di Vaikrà, ma in forma riduttiva: ma il Signore gli comandò di scrivere il verbo con la “alef” finale, in quanto egli era meritevole di essere considerato alla Sua stregua.
Mosè, per dimostrare ancora una volta la propria umiltà, scrisse la “alef” ma la scrisse più piccola rispetto alle altre lettere dell’alfabeto.
Magari anche oggi ci si comportasse così…

Shabbat Shalom