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Di Rav Alberto Sermoneta (2020)

Una caratteristica della succà, dove gli ebrei devono trascorrere i sette giorni della festa di Succot, è quella di essere precaria e non legata al terreno dove poggia.

Il motivo è che la festività di Succot, nonostante sia chiamata "zeman simchatenu - epoca della nostra gioia" perché in essa si celebra l'abbondante raccolto del prodotto come simbolo di benedizione divina, noi non dobbiamo mai cessare di pensare alla precarietà della nostra vita.
Infatti, come ci comanda la Torà, nel libro di Devarìm, non abbiamo alcun diritto, anche se siamo particolarmente ricchi e benestanti, di pensare che è soltanto per nostro merito che ci troviamo in quella condizione, bensì, perché è il Signore che vuole premiarti o metterti alla prova nel vedere ciò che fai per il tuo prossimo.
La succà rappresenta la semplicità e un luogo di ristoro dal duro lavoro dei campi; ma è anche esposta facilmente alle varie condizioni atmosferiche.
Trovandoci in piena stagione autunnale, può esserci il sole e il caldo ma anche il vento e la pioggia.
Quindi, nella seconda possibilità, basta un soffio di vento più forte per distruggere la nostra succà. Allo stesso modo avviene per la nostra vita: benché ci troviamo nella migliore delle condizioni e nel benessere assoluto, il Signore, in base al nostro comportamento può farci impoverire o arricchire in un soffio.
Succot quindi, non ci porta altro che, dopo aver trascorso un periodo penitenziale come Rosh ha shanà e Kippur, a riflettere sui possibili scenari che si dispongono davanti ai nostri occhi: godrai di un buon raccolto e gioirai, se saprai meritarlo e farai gioire anche tuo fratello che ha bisogno del tuo aiuto. 

Moadim le simchà