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Di Rav Alberto Sermoneta

"Lo tevashèl ghedì ba chalèv immò - Non cuocere il capretto nel latte di sua madre" (Shemòt 34;26)

Nella prima parte della parashà di ki tissà che leggeremo questo Shabbat, la Torà, ci narra l'episodio del "vitello d'oro" e delle sue conseguenze.
Verso la sua fine,  ci ripete le regole per l'osservanza delle tre grandi solennità: pesach, shavuot e succot, concludendo con il versetto sopra citato, "Lo tevashèl ghedì ba chalèv immò - Non cuocere il capretto nel latte di sua madre
Probabilmente il motivo di ciò è dovuto al fatto che, il popolo ebraico nella sua kedushà, non deve mescolare, usi che non gli appartengono, mantenendo così una condotta ineccepibile. 
Il versetto "non cuocere il capretto nel latte di sua madre" anch'esso uso probabilmente pagano, viene ripetuto per tre volte in tutta la Torà:
Due volte nel libro di Shemòt e una nel libro di Devarìm.
I chakhamim danno una spiegazione a questa ripetizione, dicendo che per ogni volta che esso viene citato, corrisponde una azione che si compie riguardo a questa mescolanza proibita:

"issur bishul - divieto di cuocere" 
"issur akhilà - divieto di mangiare" 
"issur hanaà - divieto di goderne" cioè, nel caso involontario in cui fosse capitato di mescolare la carne o derivati con latte e suoi derivati, non si
può, non solo mangiare ma nemmeno trarne beneficio tramite la vendita o il donarlo a chi non è ebreo e neppure darlo in pasto agli animali.

Shabbat Shalom