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foto Guido OttolenghiGuido Ottolenghi
Presidente Museo Ebraico di Bologna

"Autorità, cittadini, amici, apriamo oggi le iniziative per la XIX Giornata della Memoria. Ormai da molti anni noi del Museo, insieme alla Comunità Ebraica, alle Autorità e a molti cittadini sensibili, ci ritroviamo per proporre iniziative che aiutino il mantenimento della memoria e la comprensione dei meccanismi che possono portare alla persecuzione e alla perdita dei valori fondamentali della civile convivenza.
Quest’anno inauguriamo la mostra “1938 - La Storia”, che cerca di trasmetterci con grande efficacia didattica il percorso che da ben prima dell’adozione delle leggi razziali ha portato un passo alla volta, nella generale indifferenza alla tragedia per gli ebrei e ben presto alla tragedia della seconda guerra mondiale.

Come abbiamo già detto altre volte, il ricordo e la comprensione dei meccanismi che hanno portato alla shoah hanno senso affinché ci aiutino a vigilare sulle dinamiche della società per evitare che essi si ripresentino. Tuttavia, possiamo constatare che l’antisemitismo e la negazione del diritto degli ebrei di organizzarsi in forma di stato (cioè l’antisionismo) sono più forti che mai, che le teorie complottiste escono dal ridicolo per trovare sempre più seguaci, perfino a livello istituzionale, con il recente aberrante richiamo del Senatore Elio Lanutti ai “Protocolli dei Savi di Sion” . La sensazione è che il ricordo degli ebrei morti durante la Shoah non riesca ad attivare un barlume di intelligenza civile e politica per il presente. Dobbiamo dunque chiederci se i nostri sforzi servono.

La tradizione ebraica è fortemente imperniata sull’idea che il ricordo serva a fondare il futuro, che apprendere dai nostri vecchi apra la strada a una società migliore e dunque che la storia non sia circolare, ma che seppur con balzi e arretramenti tenda al bene, e che conoscere richieda sempre uno sforzo: a pesach diciamo “ze ulmad”, “va e studia” in un brano pensato per dimostrare che non ci si deve fermare alle apparenze, che dietro ogni parola c’è un approfondimento. Dunque, a noi pare ancora che la cultura sia uno strumento potente, anche se lento ed imperfetto, per combattere le idee oscure che la paura, i cambiamenti e le tensioni alimentano. Quando arrivano le ondate del conformismo ottuso e del disagio essa è il lume che può rischiarare le coscienze. La nostra attenzione alla memoria è dunque molto importante, non solo per mantenerla viva, ma per renderla utile nel presente, ricordando la corruzione morale che sottende l’antisemitismo, e sottolineando che le sue conseguenze sono sempre catastrofiche non solo per gli ebrei. Ma la memoria va anche maneggiata con cura.

Mi soffermo su questo concetto per fare una considerazione generale sul giorno della memoria che cade il 27 gennaio, ma che ormai occupa quasi un mese di eventi. Tali eventi sono forse inevitabilmente impostati con una componente di appello al pathos, alla commozione, allo scandalo. Non che questi sentimenti non siano assi appropriati alla shoah, ma io temo che, se abusati, déstino un senso di usura e stanchezza.

Dopo la guerra ci vollero anni perché si cominciasse a parlare della shoah, perché alcuni testimoni raccontassero . Perfino in Israele i sopravvissuti non trovarono molto ascolto (quantomeno fino al processo Eichman del 1961), e alcuni grandi autori israeliani ne hanno poi descritto l’isolamento e la sofferenza. Primo Levi faticò a trovare un editore del suo libro. Mi pare siano stati proprio libri come “Se questo è un uomo” di Levi, o “La notte” di Elie Wiesel ad aprire una finestra su quel mondo indicibile, a creare un interesse, una indignazione, un desiderio di sapere e imparare da quelle tragedie. La qualità di quei libri sta tra l’altro nel fatto che riescono con economia di parole, con sobrietà, senza dilungarsi su emozioni o descrizioni sanguinarie, senza servirsi di immagini, a toccare il cuore e la mente di chi legge. Molta saggistica di qualità si è sviluppata in questi anni e qui al Museo abbiamo dato ampio spazio ai lavori di Pezzetti, Picciotto, Sarfatti, Vercelli e tanti altri. Nel tempo altre forme di comunicazione hanno sperimentato modi di divulgare questo tema, e alcune con successo secondo me, come ad esempio i fumetti di Spiegelman, Kichka e altri. Vicende individuali, come il diario di Anna Frank, di Héléne Berr, ma anche libri più semplici come quelli di Joseph Joffo, aiutano a capire le sfaccettature delle situazioni, gli errori e le illusioni di quei tempi. Le testimonianze di alcuni coraggiosi sopravvissuti (ora però sempre più pochi a causa del passare del tempo) hanno incarnato le storie e le sofferenze. I viaggi hanno toccato il cuore di molti ragazzi. Alcuni giornali e canali televisivi danno informazione di qualità. Film, anche umoristici, come “La vita è bella” di Roberto Benigni, o “Train de Vie” di Radu Mihaileanu, o comunque romanzati come “Schindler’s List” di Steven Spielberg, forse hanno fatto pensare lo spettatore meglio di altre forme di comunicazione.

Ora però, e questo è il paradosso, il successo nel risvegliare la sensibilità agli orrori della shoah, ha creato due tipi di distorsione. Uno è politico, ed è il fatto che la patente di “male assoluto” fa gola ad altre cause: se qualcuno vuole dire che la tragedia di qualche popolo o le ingiustizie subite da qualche gruppo richiedono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, invece di faticare per anni a documentare e argomentare la propria tesi, ha a disposizione uno strumento propagandistico già confezionato, e cioè dire che ciò è simile all’olocausto, usare termini come “lager, deportazione, sopravvissuti” e simili artifici retorici, così attirando l’attenzione su di sé e banalizzando la shoah allo stesso tempo. È questo il paradosso di appiattirsi sul presente, di usare la shoah non come fonte di insegnamento ma come paragone per ogni causa corrente.

Il secondo paradosso, secondo me più insidioso, è che la forza morale e ideale della shoah crea spazi per protagonismi, carriere senza impegno, e approssimazioni: da qui il proliferare di relatori che non hanno né rigore, né conoscenze, né metodo, artisti che trovano in questo filone più spazio e meno severità di critica che in altri campi, scrittori improvvisati, e tanto altro. È difficile per una autorità, anche ebraica, opporsi a iniziative sulla shoah, quand’anche fossero di dubbia qualità, perché vi è in esse un silente (e non sempre voluto) ricatto morale: chi oserà mai criticare coloro che vogliono ricordare? E così fioriscono formati di divulgazione non sempre accurati, e basati essenzialmente sul pathos. Io guardo a queste dinamiche e mi preoccupo. Poiché credo che la terribile stagione del nazifascismo e della shoah debba insegnarci qualcosa ancora per molto tempo, e temo che l’antisemitismo sia sempre vivo e vitale. Perciò ho paura che questi abusi del potere morale della shoah generino rigetto e stanchezza nei molti. Gli eventi celebrativi si moltiplicano di anno in anno, e sono talora solo una passerella di visibilità per chi li promuove. Vediamo che vi sono in effetti eventi che logorano l’ideale della memoria accanto a quelli che lo rinforzano. Non abbiamo ancora sviluppato un vero metodo di insegnamento sufficientemente semplice per raggiungere le masse, ma abbiamo prodotto cerimonie che per la loro numerosità e retorica sono talvolta mal sopportate, forse anche dalle istituzioni. Come evitare un simile destino al messaggio così terribile e potente della shoah?

Naturalmente non ho la risposta , ma già porsi la domanda oggi richiede qualche coraggio. La Unione delle Comunità sta lavorando con le Istituzioni proprio sul tema della “Didattica della Shoah” e spero che ciò dia frutto. Al MEB, seppur coi nostri limiti, esploriamo una pluralità di linguaggi, ma cerchiamo in ognuno la serietà e la fatica dell’approfondimento onesto: c’è un grande lavoro nel trasmettere bene in una frase, nel pannello di una mostra o in una tavola disegnata la complessità di una emozione e di un concetto, e noi speriamo di aver saputo proporvi, con crescente coscienza, eventi seri, e aver saputo scremare quelli dai contenuti più approssimativi. Gianni Rodari in una raccolta di storie per bambini  racconta di una “Guerra dei poeti”: due poeti si sfidano con rime basate sulle parole “cuor” e “amor”. La lotta non esclude prigionie e assedi, ma alla fine il protagonismo dei poeti e l’uso esagerato di quelle parole le fa sparire del tutto, ed essi non riescono più a pronunciarle. Nella favola gli esperti concludono che il loro abuso le ha consumate, come una saponetta che scompare a scaglie nello scarico della vasca… Anche noi dobbiamo avere a cuore come usiamo la memoria, onorarla e non asservirla ai nostri scopi personali e immediati, perché anch’essa è soggetta al paradosso che il suo abuso la logora."

Guido Ottolenghi, Presidente Museo Ebraico di Bologna

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