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Di Moshè Marco Del Monte

In questa settimana inizamo il libro di Vaykrà. Questa sezione della Torà contiene prevalentemente le norme che trattano delle offerte dei vari tipi di Sacrifici. I chachamim affermano che il nome della Parashà, e in questo caso di tutta una parte del Pentateuco, racchiude in una parola tutto il senso della Parashà.

Quale può essere quindi il legame tra la Parola Vaikrà e i sacrifici?

Vaikrà viene dal verbo “Likrò” che può significare sia chiamare, sia leggere sia evocare.

Sappiamo bene che oggi, a causa della distruzione del Bet Hamikdash, che venga ricostruito presto ai nostri giorni, non si possono più portare i sacrifici. Per compensare tutta questa parte di ritualità i chachamim istituirono le preghiere “Bimkom Korban” “ Al posto del korban”; la cosa straordinaria è che basta “leggere” la descrizione di come avveniva il Korban, che subito entriamo a far parte del libro, come se venissimo trasportati in una dimensione dove la lettura ci trasforma in personaggi che vivono in quell’epoca e che agiscono in quel contesto. Ecco che ci si domanda anche come si possano eseguire tutte le mitzvot che non sono più attuabili dopo la distruzione del Bet Hamikdash, la risposta è che leggendo studiando quelle halachot è considerato come averle fatte. Si dice addirittura che in ogni studio in cui si riportano le parole di un Chacham, le labbra di quel Chacham inizino a muoversi, anche se non presente in questo mondo. 

Esiste una storia chassidica che racchiude molto bene questo concetto di lettura/evocazione: Quando il Bàal-Shem Tov doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco e diceva preghiere, assorto nella meditazione – e tutto si realizzava secondo il suo proposito. 

Quando, una generazione dopo, il Maggìd di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco e diceva: «Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere», e tutto andava secondo il suo desiderio.

Ancora una generazione dopo, Rabbì Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco e diceva: «Non possiamo più accendere il fuoco e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco, dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare». E infatti ciò era sufficiente. Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbì Yisra’èl di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto su una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: «Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia».
(da Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, p.353)

Buona Lettura a tutti E Shabbat Shalom